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  • lazzari64

I SIBILLINI, ovvero, IL PARCO (la Storia)

















Il signore il cui oracolo si trova a Delfi non dichiara e non nasconde, ma accenna.

 

La natura tende a nascondersi.

 

(Eraclito) 

 

 

 

Un benedettino francese, Pietro Bersuire (1300), racconta, in un suo libro di esempli morali, la seguente, storia.

 

Fra certi monti prossimi alla città di Visso non distante da Norcia, in Italia, è un lago, abitato da demoni, che prendono e rapiscono chiunque si avvicini ad esso, meno gli stregoni di professione. Tutto intorno al lago fu costruita una muraglia, vigilata da custodi, affinché non possano andarvi i negromanti e consacrare i libri loro al nemico. Ma la cosa più terribile è, che in ciascun anno, quella città deve mandare in tributo ai demoni, sulla sponda del lago, un uomo vivo, che incontinente da quelli è fatto a brani e divorato. La città sceglie ogni anno, a tal fine, alcuno scellerato, degno di così miserabile morte; ché se noi facesse, se volesse mancare del consueto tributo, sarebbe in punizione devastata e distrutta dalle procelle.

 

...Si sa, nel cuore  del Monte della Sibilla si apre un paradiso, sia pure infernalmente illusorio, ma sempre un paradiso, mentre nel Lago di Pilato aleggia sinistramente il re delle tenebre con i suoi amici negromanti.




 

Già fin dalla prima notizia del Lago, fornita da Pierre Bersuire, si avverte che vi spira una sulfurea atmosfera demoniaca. Pierre, che assicura di aver attinto i fatti da un ‘prelato degnissimo di fede’, scrive che il Lago, fin da antichi tempi, è consacrato ai diavoli che vi abitano in forma sensibile; che nessuno può avvicinarvisi - eccetto i negromanti – senza essere ghermito dalle loro branchie micidiali; che vi è stato costruito un muro di cinta all’intorno, perché nessuno, neppure i negromanti, possa accedervi.

 

Ma ciò che fa raggelare il sangue nelle vene è il sentire che la città di Norcia ed i suoi alleati (dei norcini...), per evitare di essere distrutta dalle tempeste, deve ogni anno scegliere un suo abitante e gettarlo in pasto ai demoni del Lago, che famelici subito lo sbranano.

 

Memorie classiche e medioevali circolano in questa narrazione, come il mito del Minotauro - cui gli Ateniesi erano obbligati a offrire in pasto sette fanciulli o sette fanciulle ogni nove anni - o come la descrizione dantesca delle bolgie infernali, segnatamente quella delle Malebranche.





Questo carattere demoniaco e tragico del Lago si riscontra anche nel De La Sale, il quale narra come un prete, sorpreso lassù da alcuni montanari durante i suoi esercizi negromantici, fosse stato condotto a Norcia e, quindi, torturato e bruciato vivo; e come un altro, per lo stesso motivo, fosse stato fatto a pezzi e gettato nel lago, che sempre più, così, andava colorandosi di sangue.

 

Arnolfo di Harff, poi, ci informa che sul sentiero diretto al Lago era una forca, quasi tragico ammonimento agli audaci stregoni che vi si recano di nascosto... Guai se le autorità li avessero pescati sul lago: la forca era lì, pronta per l’immediata impiccagione!

 

Il Graf riferisce una predica in latino di fra Bernardino Bonavoglia da Foligno, vissuto nel secolo XV, nella quale è descritto l’inquietante cerimoniale seguito dai negromanti nel Lago di Pilato. Il negromante, di paesi vicini e lontani, appena giunto al lago forma tre cerchi concentrici e, postosi nel mezzo del terzo con qualche offerta destinata allo Spirito Maligno, chiama per nome il demonio desiderato, leggendo il libro magico che vuol consacrargli.




 

Segue un clamore infernale che si fa voce e dice:

 

Perché mi chiami?

 

E il negromante risponde:

 

Voglio consacrarti questo libro, e voglio che tu ti impegni a eseguire tutto ciò che vi è contenuto, ogni qualvolta te lo richiederò!

 

Vuoi sapere il prezzo?

 

Ti do l’anima in contanti!

 

Ecco allora che il diavolo afferra il libro tracciandovi sopra segni misteriosi e impegnandosi ad attuare ogni sorta di male quando esso vien letto dal negromante.

 

Un patto irrevocabile, per l’eternità.

 

Si vocifera che di quei cerchi magici uno fosse stato inciso addirittura da Virgilio (che nel Medioevo era considerato anche un mago) e un altro da Cecco d’Ascoli. Secondo fra Bernardino da Foligno, una volta, a un negromante che sul Lago invocava il nome di un diavolo, fu risposto dalle acque fra gorgoglii strozzati che quel tal ‘farfarello’ era andato ad Ascoli Piceno, impegnato a far perire di spada alcuni fuoriusciti e giovinastri della città. Sceso immediatamente ad Ascoli, il negromante seppe da un santo frate francescano che in città, la notte precedente, erano stati impiccati trenta fuoriusciti e che molti cittadini delle due opposte fazioni si erano scannati tra loro.




 

Non occorre neanche notare che, secondo il predicatore, il negromante rinunciò per sempre ai suoi esercizi diabolici. E certo occorreva scoraggiare i dilettanti o i professionisti delle arti magiche, che salivano lassù, al Lago di Pilato, a schiere, fossero astrologi intenti a decifrare i geroglifici dei loro libri per prevedere il futuro, o fossero maghi in cerca di nuove ricette infernali per i loro incantesimi, o... fossero negromanti, o streghe, o eretici, insomma, chiunque di quella genia votata anima e corpo allo spirito del mistero non svelato.

 

…Introduciamo, simmetricamente, una breve incursione o breve parentesi ‘ecologica-geologica’ del luogo… che ci apprestiamo a visitare…:

 

Al sud della Valle del Chienti gli assi delle due volte anticlinali, già prima a un dipresso orizzontali, repente inclinano verso sud-est; il frapposto bacino s’innalza anche esso, e noi lo vedemmo nel dì seguente restringersi, formare l’angusto altipiano di Visso, e quello maggiore di Castelluccio; dopo di che le due catene riunendosi, vanno a comporre l’enorme gruppo della Sibilla e di Norcia.

 

Tale l’orografia: in quanto alla struttura geologica, è questa.




 

Risalendo la valle longitudinale dell’Esino da Albacina a Matelica il terreno è in gran parte costituito dal detrito appenninico; al di là di Matelica si appoggiano sui fianchi delle due catene le rocce terziarie eoceniche — calcari e schisti marnosi — e mioceniche — marne ed arenarie — anzi un lembo superiore di miocene prossimamente a Matelica ha cave di gesso. L’elevazione di terreno interposta fra Matelica e Castel Raimondo in parte è miocenica, in parte detritica, e separa la Valle dell’Esino da quella di Potenza: e sono miocenici le marne e i tufi conchigliferi dei colli che susseguono e sull’uno dei quali è posta Camerino.

 

Chi dall’alto di questa città osservi il bacino di Matelica e i colli chiusi in tutta l’intervalle scorge chiaro come il terreno terziario s’intruda — quasi corrente che penetrando nell’interno sinclinale per la Valle del Chienti s’espanda ai suoi lati — fra le due grandi ondulazioni di roccie secondarie, formando a sinistra del Chienti i colli su cui stanno Camerino, Castel Raimondo, e Matelica, e a destra di quel fiume un’altra  linea di colli e monti eocenici che verso Visso, sbarra la sinclinale, e forma lo spartiacque.




 

Anche in questa linea oltre il Chienti vedemmo alle arenarie mioceniche succedere marne calcari e calcari frammentari ed impuri con fucoidi simili all’Alberese dei Toscani. È l’eocene che intorno al villaggetto Appenninico presenta un sottile e lacero mantello sotto cui rosseggia la scaglia cretacea, le marne ed i calcari eocenici si protraggono sin presso Visso.

 

[….] Fossili caratteristici ne sono gli aplichi, e un piccolo aptico fu appunto raccolto li presso la strada.

 

Sono gli Schisti ad aptichi. 

 

A questi schisti ad aptichi — forse rappresentanti del titonico inferiore — succedono strati assai regolari, di mediocre ertezza di un calcare puro e compatto, grigio-chiaro, a frattura concoide. I fossili, specialmente brachiopodi, di cui abbonda negli Appennini più a nord, lo fecero riconoscere certamente liasico e con probabilità del Lias medio.




 

Qui manca adunque il noto Lias superiore rosso, che nell’Appennino centrale, fa colla apparenza litologica e i fossili frequentissimi, perfetto riscontro a quello di Lombardia. Nei monti della Sibilla è in vero assai raro. Presso Visso si ritrova a Col Sant’Angelo sulle sponde della Nera. Il Lias medio all’incontro è esteso e potente, benché qui anch’esso, come gli schisti ad aptichi, sia ridotto a tenuissima potenza. E di vero si deve a quella sua esigua massa se è dato d’affiorare all’infima roccia dell’Appennino, che lì proprio sopra il romitorio s’estolle in una rupe massiccia.

 

Chi guardi alle iscrizioni marmoree prò voto, vede manifesto quanto abbiano spesseggiato i violenti terremoti in quella regione, se condussero ad atti e manifestazioni di grazia e di voto pubblico dei magistrati e del popolo destinate a trasmetterne il ricordo. Il 1703, il 1719, il 1730, il 1740 furono anni di disastri, i quali certo avrebbero una precedente ed una successiva storia se ne fossero state trasmesse, o se ne indagassero le memorie.




 

Né è a meravigliarne quando si consideri al sistema di fratture che convergono in Visso; alle moli che furono dislocate, alle anfrattuosità interterrestri corrispondenti alle moli sollevate; il tutto attestante un centro di espansione della violenta attività per cui fu altospinta l’immane massa costituente i Monti Sibillini. Non possono dunque non essere ampie vie all’addensamento ed alla estrinsecazione dei fenomeni della più profonda vulcanicità, i cui effetti, le cui tensioni si manifestano per tratti.

 

Le inondazioni ed i terremoti sono l’incubo dei Vissani!

 

I Monti Sibillini costituiscono uno straordinario scenario che innalza le proprie vette al centro della penisola italiana, tra le regioni delle Marche e dell’Umbria. Parte della catena appenninica, i loro formidabili bastioni, caratterizzati dalla presenza di creste vertiginose e spaventosi precipizi, sono abitati da sinistre leggende un tempo conosciute in tutta Europa, capaci di attirare schiere di visitatori da paesi assai lontani, alla ricerca della caverna nella quale si diceva dimorasse una sensuale profetessa, una Sibilla, e del lago nel quale si riteneva che il corpo di un antico prefetto romano, Ponzio Pilato, conoscesse un inquieto riposo.




 

Due luoghi illuminati da un’intensa fascinazione mitica, caratterizzati da due narrazioni differenti e apparentemente non correlate, e posizionati su vette diverse separate solamente da pochi chilometri di distanza, in piena linea visuale reciproca.

 

Luoghi di ardite avventure.

 

Luoghi di magia e mistero.

 

Due siti, una caverna al cui interno una Sibilla degli Appennini aveva stabilito la propria leggendaria dimora sotterranea, e le rive rocciose di un piccolo lago, presso il quale i negromanti si recavano per consacrare i propri libri magici.

 

Ma da dove viene tutto ciò?

 

Questo aspetto si presenta ai nostri occhi in modo molto evidente nel momento in cui si prende in considerazione la fama leggendaria che ha avvolto il Lago di Pilato sin dagli antichi riferimenti resi disponibili da Antoine de la Sale nel suo quattrocentesco Paradiso della Regina Sibilla: 

 

Nel mezzo si trova una piccola isoletta costituita da un’enorme roccia, che un tempo fu murata tutt’attorno, e in molti punti sono ancora visibili le parti inferiori di questo muro. Dalla riva a quest’isola corre un piccolo passaggio, sommerso nell’acqua profonda cinque piedi, così come la gente mi disse, il quale fu danneggiato dagli abitanti del luogo al fine di renderlo impraticabile, in modo che coloro che si recavano all’isola per consacrare i loro libri per arte di negromanzia non la potessero trovare più. Questa isola è molto sorvegliata e controllata dalla gente del luogo, perché quando qualcuno vi si reca in segreto per praticare l’arte del Nemico...




 

Dunque, il Lago di Pilato costituiva un luogo d’elezione per l’esecuzione di arti magiche e proibite. E, spesso, quei sedicenti negromanti non facevano che andare incontro a un terribile destino personale, come lo stesso Antoine de la Sale ci riferisce:

 

Non è trascorso molto tempo da quando in quel luogo furono catturati due uomini, dei quali uno era un prete. Questo prete fu condotto nella detta città di Norcia e lì fu martirizzato e arso; l’altro fu smembrato e poi gettato nel lago da coloro che lo avevano catturato. 

 

Nel 1474, lo studioso italiano Flavio Biondo pubblicò la propria opera De Italia illustrata, in seguito tradotta in lingua italiana nel 1542, in cui egli riporta un’ulteriore menzione a proposito delle arti magiche praticate presso il Lago:

 

 Poco più su è quel lago famoso nel territorio di Norcia, dove dicono falsamente, che in vece di pesci, è pieno di demoni, e la fama [...] del lago ha ne di nostri tirati molti pazzi dati a queste poltronarìe de la negromantia, et avidi di sapere et intendere di queste novelle magiche, e più ne secoli passati, come si raggiona, gli ha tirati dico a sallire su questi altissimi monti, et alpestri, con gran fatica, e vana.




 

Tra il 1496 e il 1499, il cavaliere tedesco Arnold von Harff intraprese un itinerario che lo condusse attraverso diversi paesi, da lui descritti nel suo Pellegrinaggio, un resoconto di viaggio. Nella propria opera egli inserì un riferimento, ancora una volta, al carattere negromantico del Lago posto tra i Monti Sibillini:

 

Dopo mezzogiorno [il signore della contrada] cavalcò con noi sulla montagna, fino ad arrivare dove si trovava un piccolo lago. Accanto a questo lago si trovava una piccola cappella, simile a una santa casa. All’interno era posto un piccolo altare. Egli ci riferì che in passato, quando la negromanzia era praticata nel mondo, alcune persone frequentavano questo altare [...], praticando qui la loro negromanzia. [...] Non sopportando più tutto questo, la gente del luogo elevò delle proteste presso il signore di questo castello, che fece così innalzare una patibolo tra la santa casa e il lago, e proibì a chiunque, da allora in poi, di praticare la negromanzia presso l’altare, e che chiunque lo avesse fatto sarebbe stato impiccato su quella stessa forca.

 

Ci imbattiamo in ulteriori riferimenti al Lago a mano a mano che procediamo oltre attraverso i secoli. Nel 1550 Leandro Alberti, un frate domenicano, scrive le seguenti parole nella sua Descrittione di tutta l’Italia:

 

Poscia alquanto più in su nell’Apennino nel territorio Nursino, evi il Lago [...] addimandato Lago di Norsa [...] alcuni huomini di lontano paese [...] venero a questi luoghi per consagrare libri scelerati et malvaggi al diavolo, per potere ottenere alcuni suoi biasimevoli desiderii, cioè di ricchezze, di honori, di amenosi piaceri et di simili cose. [...] havendo disegnato il Circolo, et fatti i debiti caratteri colle escomunicate cerimonie [...] tanto concorso di incantatori, che salivano sopra questi asperi et alti monti.




 

Facciamo qualche passo nella Storia e non solo del Lago, anch’essa simmetrica alla comune appartenenza geologica-genetica giammai rimossa, solo abdicata ai perseguitati Dèmoni della Terra.…

 

E approfondiamo, o meglio analizziamo, uno strato geologico della Terra…

 

La ‘censura’ degli eretici, cioè la funzione giudiziaria al servizio della Chiesa (lo Stato Chiesa successivamente abdicata allo Stato), era (ed è!) una funzione tradizionale e in questo l’Alberti si identificava pienamente col suo ordine.

 

Censura e cultura erano due sinonimi per chi concepiva la sorveglianza sulle idee e sulle pratiche come il più onorevole servizio che si potesse rendere alla Verità della fede.

 

All’interno di questa cornice culturale e istituzionale Leandro Alberti portava iscritte nel suo nome e nelle sue ambizioni una discendenza fiorentina e un gusto per la letteratura che trovarono nelle nuove cattedre bolognesi degli ‘humanisti’ il terreno per svilupparsi e crescere.

 

Furono questi gli ingredienti che, combinati con la tradizione domenicana dell’insegnamento e della predicazione al popolo, ritroviamo nelle prime prove letterarie e nelle prime avventure di fra’ Leandro nel mondo della stampa: in sommaria definizione, ortodossia teologica e attenzione – anche strumentale, a fini di pedagogia fratesca – al nuovo spazio aperto dal libro e dalla letteratura di ‘umanità’.




 

Una combinazione di questi due ingredienti ancora in equilibrio trovò l’occasione in una truculenta e sanguinosa storia di caccia ad eretici e streghe a cui l’Alberti dette il suo contributo. Ma non fu un contributo teologico né, a quanto pare, giudiziario o poliziesco: fu sul terreno della letteratura e del libro e nel rapporto con le opinioni e con le devozioni di quel popolo ordinario dalla cui vita quotidiana gli umanisti suoi amici mostravano di voler prendere le distanze che il frate domenicano mise a frutto le sue doti letterarie.

 

Mentre l’orizzonte europeo e italiano era sempre più occupato dalle polemiche intorno a Lutero che impegnavano anche molti confratelli dell’Alberti, la sua attenzione fu assorbita dalla campagna contro streghe e stregoni scatenata dal principe Gianfrancesco Pico della Mirandola. 

 

Si trattò di una tragica campagna condotta con fanatica intolleranza da un principe che ambiva alla gloria letteraria e filosofica illustrata in famiglia dal ben più celebre Giovanni Pico e che intanto conduceva una sua personale battaglia in nome di un cristianesimo bigotto e sospettoso, ospitava donne in fama di santità e ne mandava a morte altre accusate di alleanza col diavolo.




 

La storia della ‘setta stregonesca’ della Concordia lasciò una traccia profonda nella memoria dei contemporanei. A distanza di anni il medico ferrarese Antonio Musa Brasavola ricordava ancora il protagonista di quei processi, il prete stregone Benedetto Berni che battezzava in nome del diavolo.

 

Ma ai posteri, scomparsi i processi, sono rimasti nudi elenchi di nomi di uomini e donne processati e condannati. Sulla sostanza delle cose di cui furono accusati abbiamo solo la narrazione in forma di dialogo umanistico con cui il principe della Mirandola presentò e difese la sua versione dei fatti. E fu proprio Leandro Alberti a dare una mano al signorotto padano non solo premettendo una pagina di dedica all’edizione latina ma ancor più impegnandosi nel lavoro di traduzione in volgare con la quale la caccia alle streghe si completò con un’opera di propaganda e l’eliminazione di streghe e stregoni fu coronata dalla distruzione della loro memoria.

 

Nel dialogo Strega o delle illusioni del demonio la storia del prete stregone don Benedetto Berni e delle altre persone coinvolte nelle accuse e nei processi di stregoneria venne rielaborata in un allucinante intreccio di dèi pagani e di diavoli cristiani, figure mutevoli di un’insidia perenne tesa con le tentazioni del sesso alla salute delle anime.




 

Tutta la mitologia pagana, tutta la poesia e la filosofia degli antichi vi furono chiamate in giudizio per essere smascherate e denunciate: dietro i giochi di Diana, i balli delle Ninfe, l’impudica Venere, la diavolessa Ermelina che invisibile agli altri si accompagnava a don Benedetto Berni, l’occhio del principe savonaroliano vedeva ripetersi l’eterno inganno del demonio. 

 

Che gli dei falsi e bugiardi fossero incarnazioni del diavolo cristiano era stato un antico argomento di battaglia ai primordi del cristianesimo. Ma nel secolo XVI nessun altro uomo di cultura fu capace di rispolverarlo con la cupa determinazione del principe della Mirandola. Nelle sue pagine i colori delle favole antiche sono cancellati e ridotti al registro in bianco e nero di una visione del mondo come scenario perenne dell’inganno diabolico. La formazione culturale del sabba stregonesco calava così sul paesaggio padano e mescolava le storie inquisitoriali di streghe infanticide e sacrileghe con le favole della mitologia antica.

 

Dalla parte del principe teologo si schierarono allora compatti i domenicani. Il 10 giugno 1523 il savonaroliano fra’ Luca Bettini scriveva una durissima lettera al marchese di Mantova che aveva inutilmente tentato di tutelare i suoi diritti giurisdizionali sugli abitanti del territorio di Concordia.

 

Pensate…

 

…scriveva il savonaroliano Bettini…

 

…che, se ben son frate, siete però in questo subiecto e obligato ala mia obedientia.




 

L’umile fraticello che aveva imparato da Girolamo Savonarola la via delle virtù cristiane aveva ben spiccato il senso del potere dell’Ordine a cui apparteneva. Intanto il 1° maggio 1523 l’Alberti aveva firmato la dedica della sua traduzione in volgare alla signora della Mirandola, Giovanna Carafa Pico, assumendosi la responsabilità di consigliere e alleato del principe, se non vogliamo immaginarlo addirittura committente.

 

Sette uomini e tre donne pagarono con la morte sul rogo la vittoria dei frati alleati col principe della Mirandola.

 

Il principe

 

– scrisse l’Alberti –

 

…li fece porre sovra di una grandissima stipa di legna e bruciarli in punitione delle loro sceleragini et ancho in esempio dell’altri.

 

E il frate prese la penna per difendere l’operato del principe.

 

Non era una scelta popolare: erano in molti a pensare e a dire che non era giusto uccidere ‘così crudelmente’ quegli uomini e quelle donne. E non era giusto perché l’accusa di aver partecipato al sabba era infondata. Così pensava la maggior parte della popolazione. Ma non così pensava l’Alberti.





I domenicani erano abituati a preferire la loro verità all’opinione popolare; nella loro tradizione c’era come iscritto un sentimento di esaltazione per l’eroismo del combattente in nome di Dio, pronto a morire per estirpare l’errore, anzi, come scrisse l’Alberti, per

 

estirpare e sveglere cotesti cespugli di pungenti spine di mezzo delle buone et odorifere herbe de fedeli Christiani.

 

In realtà non correva alcun rischio di finire ammazzato come il domenicano Pietro Martire: la sua partecipazione a quella battaglia avvenne a distanza, col solo uso della penna e della tipografia. Rivolgendosi ai ‘candidi et umani lettori’ ad apertura del libro da lui tradotto il domenicano avvertì il bisogno di chiarire la sua posizione: ma – fatto ben singolare – non tanto nel merito della questione della realtà del sabba e del volo notturno delle streghe di cui tanto si parlava e si scriveva allora fra teologi e uomini di legge.

 

La questione era stata largamente discussa.

 

Storie dei riti notturni dominati da una misteriosa Signora del Gioco, riunioni di diavoli, donne e uomini in luoghi selvaggi per banchettare e godere in maniera intensa i piaceri di Venere circolavano negli scritti di serissimi domenicani, come frate Isidoro Isolani o come fra’ Bartolomeo Spina, dove si davano indicazioni precise sui modi, sui tempi e sulle località dove avvenivano i fatti, desumendole dalle confessioni degli imputati.




 

Dunque l’Alberti poteva fare riferimento a una comune dottrina domenicana sulla stregoneria: del resto, era recente la sistematica presentazione della materia fatta dall’illustre domenicano già priore a Bologna Silvestro Mazzolini detto il Prierate (allora impegnato contro Lutero). Ma sulla questione l’Alberti non aveva niente da dire. E non perché avesse dei dubbi.

 

La sua adesione alla dottrina della presenza diabolica nel mondo era tranquilla e priva di incertezze.

 

Era sulla verità di fatto delle cose straordinarie operate da streghe e stregoni che la sua dottrina di domenicano gli imponeva di dubitare.

 

Bene faceva Gianfrancesco Pico a punire chi ricercava quei poteri e faceva atti di omaggio al demonio; questa era opera di giusta autorità cristiana. Ma tutte quelle storie erano favole, come doveva spiegare distesamente nella sua Descrittione e precisamente nelle pagine dedicate al lago di Norcia e ai monti della Sibilla: 

 

Vero è, ch’io non niego che ‘l demonio non possa far apparer tutte queste cose dette disopra esser vere essendo illusioni, secondo che dicono i teologi et il sig. Giovan Francesco Pico della Mirandola, huomo molto letterato.




 

Ma erano solo favole: quelle del lago di Norcia le aveva sentite raccontare dalle donne quando era piccolo, nella casa paterna, per trastullo e piacere.

 

Solo inganno e favola, dunque; tuttavia questo non diminuiva la colpa di quei cercatori di ricchezza e di piaceri che si muovevano fin da fuori d’Italia per…

 

…consacrare libri scelerati, e malvagi al Diavolo, per poter ottenere alcuni suoi biasimevoli desiderii, cioè di richezze, di honori, d’amenosi piaceri…

 

Se non aveva incertezze teologiche, ne aveva però di tipo stilistico e letterario. Per questo dedicò la premessa alla traduzione dell’opera del Pico a mettere le mani avanti. Il punto sul quale gli premeva fare chiarezza era quella dell’uso del volgare. I lettori si potevano stupire che la versione in volgare del dialogo del Pico non seguisse le regole del Bembo, o del Bandello, o del leggiadro Fortunio o quelle care allo amenevole e gentile messer Marc’Antonio, il figlio di Giovan Antonio Flaminio che doveva dare qualche dispiacere agli inquisitori ma che per ora sembrava essere una delle delizie dell’età presente.

 

Ed ecco la spiegazione: lui conosceva bene lo stato della questione ma non ai dotti si rivolgeva bensì al rozzo volgo, quel volgo che aveva reagito ai roghi dell’Inquisizione con grande ostilità.




 

E tuttavia questa spiegazione non basta a tranquillizzare il lettore.

 

Ci si chiede come fosse possibile dedicare tanta attenzione alle parole in un libro che voleva essere strumento di battaglia sulle cose. Del resto, anche in quella battaglia si trattava di parole: si discuteva aspramente se il Sabba stregonesco fosse realtà o illusione, se le confessioni degli imputati fossero credibili o meno. Per la capacità del fanatismo religioso di dar corpo a dei fantasmi c’erano persone che morivano bruciate sui roghi.

 

Su questo l’Alberti non si soffermò.

 

Bastava il lavoro di traduttore e l’alleanza stretta così con Gianfrancesco Pico a testimoniare da quale parte egli si schierasse. Era frate e ragionava da frate, senza incertezze. Ma, nell’affacciarsi sul mondo della letteratura in volgare, una cosa gli premeva: rivendicare per sé la libertà di non seguire modelli dotti nel momento in cui si serviva del libro come strumento di comunicazione col volgo. La via della nuova letteratura in volgare si era aperta al colto e fattivo domenicano come il percorso obbligato per coniugare la scienza libresca con il compito primario del suo Ordine: l’efficacia dell’opera di persuasione e di controllo nei confronti degli illetterati e dei dotti.

 

(A. Prosperi)





                      

   

Ed hora proseguiamo l’impervio Sentiero, l’antica dismessa mulattiera con l’Anima in spalla qual peso dello Spirito avvelenato dal nuovo ingordo progresso, in nome e per conto del Diavolo spacciato per Santo; con la bisaccia colma dei frutti della Terra, fors’anche dell’intero Universo donde proveniamo; privati della materia di cui si ciba la vera, e dicono, sana bestia; con passo malfermo di chi per sempre perseguitato dal male antico nel conto della falsa dottrina divenuta ideale di vita; superiamo il ponte proibito, là ove le mura cingono l’assedio della falsa parabola protesa e immobile nel Tempo della Storia; ci sporgiamo dal ponte per ammirare ogni Anima rinata - impervia - seguire il corso dell’innominata e perseguitata Natura, impetuosa precipitare a valle - conferire la vita -; sino alla grotta, il riparo ove per secoli, meditata ispirata parola da Lei comandata; dona l’oblio della mitica forza forgiata dal Dio e sua figlia, Dèa cinta dell’Immacolata bellezza perseguitata; Natura divenuta oracolare sibillina incompresa Poesia; come nel ventre d’una antica Dèa l’oracolo rinasce all’Anima frammentata dalla crosta sino alla più alta vetta della Stratosfera!

 

Ove ogni Dèmone del cielo meditata giusta vendetta!

 

Il Verso dello Sciamano, dell’Oracolo, del Profeta diviene parola scolpita in difesa dell’Innominato Dio, Immacolata Natura donde la sua parola derisa e perseguitata.

 

Proseguiamo l’eterno cammino là dove, nella misera hora del Tempo conservato e giammai mutato, corre il fuoco della sulfurea Apocalisse, color acciaio temprato, spacciata per ogni mercato, alla medesima grotta oro della miniera; forgiano il ferro dell’armatura esposta ad ogni araldo della protetta fortezza.

 

L’Oro della perduta Anima cinge la corona del Dèmone civilizzato. La Bestia gli fa’ compagnia tiene in grembo i putti del domani allevati come maiali.  

 

Il Feudo urla come un Drago intravede il Dèmone della Natura!




  

 Una strada ben asfaltata - ovvero - l’equivalenza del nuovo progresso in uso all’insana economica dottrina avanza, di cui l’apparente leggenda, il mito, il rito, l’eresia, connesse e legate fra loro, ovvero un perduto mondo pagano perseguitato additato e spacciato per demoniaco, infero quanto e più del Diavolo, in compagnia di preti in odore d’eresia, comporre sulfureo elemento alchemico contrastare la materia.

 

Ci adeguiamo, quindi, alla geologia della Terra, giacché pur vero, che se abbiamo testimonianze di terremoti dal 1700, qual terrore manifesto dei vissani non meno dei norcini, presumiamo che tali eventi tellurici, anch’essi specificati e interpretati nel mito,  conferivano e stabilivano (per quanto ancora oggi in taluni luoghi si prova e rileva una determinata energia provenire dalla Terra) un legame connesso con i sulfurei Inferi…

 

(non un caso l’oracolo di Delfi, il più noto e celebrato in Grecia quale testimonianza di una determinata Filosofia rilevata, per l’appunto, dagli Oracoli, come testimonia Plutarco, quale luogo situato in un contesto geografico come culturale non certo casuale connesso nella costante divinazione della Terra interpretata dal sulfureo antico atto dell’intera età evolutiva tradotta nella mitologica filosifica dottrina, sino alla morte di Pan l’eroe anch’egli della Natura…),




 

…verso il mondo sotterraneo e tellurico di una vasta tradizione di Dèi accompagnati da Dèmoni, quando in verità e per il vero, sappiamo il centro della Terra sino alla più elevata Stratosfera, evolvere la propria ed altrui frammentata connessa Natura; dalla quale ogni sconnesso quanto vano, odierno evento seminato e raccolto, simile al più volgare inutile veleno; avversare equiangolare moto  dell’Universo intero, manifestare la propria presenza quanto l’antico disprezzo, l’ira d’ogni perseguitato avvelenato Elemento, Dio dell’Universo; dai moti delle stelle alle maree, dai fenomeni vulcanici, sino agli elevati imperi del cielo, sospesi nell’impercettibile invisibile atmosfera, uditi da una umile conchiglia, tutti indistintamente legati tra loro meditare giusta vendetta, così come intuirono e compresero gli  antichi alla spiagge d’un saggio mare hora irrimediabilmente naufragato.

 

Cosa che forse abbiamo dimenticato, solo con l’Ecologia si è (ri)scoperto come l’Universo, e sua figlia la Terra, donde nata e maturata la materia in contrasto con lo Spirito eterno, in perenne costante connessione e reciproca avversione, sino al costante, lento mutevole equilibrio dato dalla Evoluzione (disgiunta e coniugata dal ‘peccato originario’); quindi l’imprescindibile legame dalla più alta Stratosfera, sino alla basse e ancora poco note, correnti degli Oceani, legami che rendono un equilibrio da precario a stabile.

 

Da stabile a duraturo, dimostrando che la Natura e ogni suo dèmone tende alla perfezione, l’uomo all’opposto, alla distruzione.




 

Così dedurre, o meglio, tradurre in senso Storico quanto geologico, Santi per Dèmoni, e Dèmoni per santi, ci pare la giusta progressione donde rilevare il nostro dismesso codice genetico. I roghi appartengono all’intolleranza umana protratta e numerata per Secoli, inerente e confacente all’impropria materia mal interpretata; al contrario, le ceneri di ogni magma, alla costante espressione della Natura rinata per ogni Anima perseguitata incarnare l’offeso Elemento.

 

La quale Anima la si rileva fra il ghiaccio e il fuoco, così come riconosciamo l’Universo.

 

Certamente il dominarla come il comprenderla, pone l’Evoluzione dell’uomo - riflessa nella propria Storia - rispetto alla dedotta geologia, in un contesto asimmetrico, quando la simmetria nella specificità d’un sacro Universo, rimossa, nel variegato - composto - preciso immutato evoluto sistema rimembrato del perduto Sentiero, convergere immutabile verso la Cima d’ogni Dio padre dell’Immacolata Dèa Natura.

 

Per secoli e millenni lo abbiamo invocato!

 

Spesso in sua vece adorano il diavolo!

 

Pan di nuovo morto?

 

Con la sacra dottrina assommata ad altre scienze, compresa l’antropologia si è cercato, a e con Ragione, di interpretare quanto rimosso. Di dedurre quanto celebrato nell’apparente incoerenza del mito. Tutte queste scienze sacre connesse tra loro, daranno la risultante della Natura esplicitata nelle diverse sue Forme, a cui l’uomo appartiene sin dall’inizio dei Tempi, cioè all’ultimo Secondo dell’intero arco evolutivo.




 

Prima di lui, per milioni di anni la stessa Natura si è evoluta, ha parlato una lingua scomposta e frammentata, oracolare, ne più ne meno di un essere vivente affiorare dall’antica elevata sulfurea dimora, il quale crescendo migliora il suo essere ed appartenere all’Universo. Perfeziona la propria incompresa lingua dettata da una grammatica troppo antica per essere rimossa oppure dimenticata!

 

L’uomo è riuscito, in pochi sconnessi, incompiuti frammentati articolati dotti linguaggi, quanto Dio e sua figlia, la Natura, mai avrebbero osato o solo immaginato, l’impareggiabile linguaggio del Diavolo!   

 

Ma ora riprendiamo il nostro Sentiero.

 

(Giuliano)




 

 

Ma quanto è antica questa negromantica fama?

 

Possiamo ritornare indietro nei secoli e aprire le pagine del poeta.

 

Fra i poeti, infatti, risponde per primo all’appello Fazio degli Uberti col suo Dittamondo, composto, a più riprese, tra il 1346 e il 1367. Fazio immagina una fantastica tournée intorno alle tre parti del mondo, compiuta per incitamento della Virtù e in compagnia dell’antico geografo Solino. 

 

Descrive paesi e contrade, ricorda storie e personaggi in una sequenza di allegorizzazioni moraleggianti che raggelano il suo verso, descrittivo e sciolto, ma senza un intimo movimento lirico. Ebbene, Fazio, da buon toscano che punzecchia volentieri i  marchisani, come Boccaccio e il Sacchetti – perché i toscani  hanno sempre un po’ sul naso i marchigiani, fino a Michelangelo che si avvelenava il sangue contro Raffaello e più contro il suo conterraneo protettore Bramante – fa della Marca nientemeno che la patria di Giuda:

 

Entrai nella Marca, com’io conto,

Io vidi Scariotto, onde fu Giuda,

Secondo il dir d’alcun, di cui fu conto. 

 

Gli studiosi hanno voluto cercare veramente qualche paese delle Marche che suonasse come ‘Scariotto’, e il Crocioni pensa a Montecarotto, che al genitivo latino suona ‘Montiscarotti’.  

 

Fazio, più attento alle favole strane che alle vere bellezze del Piceno, subito dopo, in alcuni versi ascrivibili al 1360 circa, ricorda anche la fama negromantica del Lago di Pilato:

 

La fama qui non vo’ rimanga nuda

Del Monte di Pilato, ov’è un lago

Che si guarda la state a muda a muda,

Perché, quale s’intende in Simon Mago,

Per sacrar il suo libro là si monta,

Ond’è tempesta poi con grande smago,

Secondo che per quei di là si conta  

 

(libro III, cap.I)




 

…Ma si sa, questi versi scialbi e incolori hanno più importanza di documento che di poesia, anche perché di poesia Fazio non se ne intendeva molto.

 

Ed eccoci a un altro poeta toscano, il Pulci, che può cantare le ricchezze negromantiche del lago per averlo visitato personalmente. Il suo sentimento verso le arti occulte qui oscilla fra il ‘bel gioco’ e l’appassionata curiosità, più volte peccaminosamente soddisfatta. Egli nel suo Morgante maggiore, discorrendo in generale sulla licealità e sul potere della magia e degli incantesimi, a un certo punto esclama:

 

Così vo discoprendo a poco a poco

Ch’io sono stato al Monte di Sibilla,

Che mi pareva alcun tempo un bel gioco;

ancor resta nel cor qualche scintilla

Di riveder le tanto incantate acque,

Dove già l’ascolan Cecco mi piacque.

 

E Moco e Scarbo e Marmores allora

E l’osso biforcato che si schiuse

Cercavo, come fa chi s’innamora;

Questo era il mio Parnaso e le mie Muse;

E dicone mia colpa e so che ancora

Convien che al gran Minos io me ne scuse,

E ricognosca il ver con gli altri erranti,

Piromanti, idromanti e geomanti

 

(c. XXIV, stanze 112-13)




 

 

E’ chiaro che il Pulci cercava i segreti della magia studiando l’Acerba di Cecco d’Ascoli, perché i nomi Moco, Scarbo e Marmores sono quelli misteriosi degli indovini, ricordati appunto dal poeta ascolano, insieme con ‘l’osso biforcato’, che è l’osso pettorale del gallo.

 

Il Pulci dovette avere una bella ‘cotta’ per la magia, se fece con essa ‘come fa chi s’innamora’. La sicurezza del linguaggio negromantico lo conferma, specie in quell’ultimo verso disteso a galoppo di focoso puledro:

 

Piromanti, idromanti e geomanti…

 

Tutta gente diabolica, protesa a prevedere futuro dal guizzo delle fiamme e dalle code delle meteore ignee e delle stelle, e con loro in grotte scure a rimeggiare e cercare: studiare il comportamento bizzarro delle acque o da segni cabalistici sul terreno protesi nel proprio primo e primordiale Sé…

 

(G. Santarelli)

 

 

Plutarco, vir Delphicus, è il più alto difensore della fede oracolare intesa come saggezza. Perciò afferma:

 

L’arte mantica che si volge al futuro deriva dal presente e dal passato. Nulla infatti sorge senza una ragione e la stessa prescienza non può uscire dall’ambito della ragione. In verità, dal momento che le cose presenti sono strette a quelle passate e le future alle presenti in un vincolo tale che serra compiutamente il principio delle cose con la loro fine, si può concludere che chiunque sappia stringere tale nodo e intrecciare tutte le cose nell’ambito della Natura, costui saprà dire, in anticipo, le cose che sono, le cose che saranno, le cose che furono.  E fece bene Omero a far precedere ‘le cose che sono…’.  Perciò, anche se l’espressione suoni male, non esiterò ad affermare che il tripode non è altro che Ragione.




 

Così, l’oracolo antico, nella sua forma più alta e duratura che fu la religione delfica, la quale rese vassalli gli oracoli di Aba, Tegira, Claro, Ismeno, Didime, Delo, fu saldamente ancorato al dettame della Ragione e, ora con la lotta, ora con l’alleanza, prevalse su gli oscuri riti misterici, sul furore dionisiaco, su i culti orfici, assorbendo tutte le forme oracolari nella sua luce apollinea.

 

Un appello supremo alla ragione : ecco l’oracolo.

 

Apollo fece sì che la Pizia conversasse con i consultanti nel modo che tengono le leggi con i cittadini, i re con i sudditi, i maestri con gli scolari: con l’intento, cioè, di farsi comprendere e di persuadere.

 

È il trionfo della ragione.

 

Tra breve, la bocca furibonda della Sibilla eraclitea, il profetismo dei cresmologi orfici, la tradizione delia, le spoglie di Crisa, trapassano a Delfi, al nuovo tripode della Pizia. Lì Apollo esercita i quattro uffici: musico, profeta, medico, arciere. Ora, tra il dio, cresciuto, così, di tutta la ricchezza dell’anima greca, e i supplicanti dell’oracolo occorreva un medium.

 

Finché era rimasta profetessa la Terra, bastò che l’orante posasse il cuore sul suo seno e ne traesse il sogno (incubazione): ma d’ora innanzi Apollo parlerà umanamente per voce di una giovinetta: fu Dafne, ghermita per sempre, o Themis, figlia della Terra, che ammiriamo ancora dipinta sulla coppa di Vulci?




 

Sta, la bellissima giovinetta, alta sul tripode: nella mano destra ha il ramo di lauro e regge con la sinistra una pàtera che guarda, fissamente. Il velo non chiude che una piccola parte del capo: i piedi sono nudi e alti sulla Terra. La testa è china, come quella di Psiche, e sembra ascoltare, pacata, il palpito del petto appena sommosso del Nume. L’ignoto ceramista attico non avrebbe riconosciuto la Pizia furente di Lucano e del Crisostomo - capelli sparsi, contorsioni furenti, labbra schiumose - ; eppure, la pittura vascolare del V secolo si compiaceva di rappresentare oracoli e sibille oppresse da un tumultuoso delirio. 

 

Dinanzi a quella figuretta serena e raccolta, dobbiamo concludere che Lucano, per la suggestione di Virgilio, confuse la Pizia con la Sibilla. Come ce la dipinge il pittore del vaso attico, così ce la descrive, sette secoli dopo, Plutarco. Il tripode che è ragione, secondo la convinzione di quel pio sacerdote delfico, non è seggio adatto per una profetessa furente. Dalla figurazione ancora mitica di Temi si trapassa alla Pizia plutarchea, attraverso testimonianze storiche recanti nomi, volti, episodi, descrizione del rito mantico, con tal segno di sincerità che noi oggi non degniamo di una risposta la tesi del Fontenelle.




 

La fanciulla di campagna, che divenne Pizia, allorché Plutarco esercitava il sacerdozio, è arrivata da poco per sostituire la Pizia morta dopo una consultazione, alla quale era stata sottoposta riluttante. Il modo stesso con cui Plutarco ne dà racconto prova che si tratta di un caso assolutamente eccezionale, il medesimo, forse, che tinse di orrore la consultazione di Appio, nella Farsaglia. Alla dochimanzia - narra Plutarco - la vittima era rimasta inerte, e nondimeno la Pizia era stata costretta a purificarsi alla fonte Castalia e ad aspirare il fumo del lauro. Rivestita del costume di Apollo Musagete, ella aveva bevuto l’acqua della sorgente Cassotis ed era salita sul tripode, con una foglia d’alloro in bocca e col ramo nella destra. Sin dalle prime risposte fu chiaro, all’asprezza della voce, che essa non aveva deposto il suo turbamento e rassomigliava a una nave con la chiglia rotta, in balìa d’uno spirito muto e maligno.

 

Alla fine, tutta squassata e con un grido strano e tremendo, cadde riversa, mentre si slanciava verso l’uscita. Atterriti, fuggirono non solo gli stranieri venuti a consultare l’oracolo, ma anche i sacerdoti e lo stesso profeta Nicandro...  Pochi giorni dopo la Pizia mori.

 

Non è nostro compito raccogliere qui altre testimonianze donde risulti che l’empito della profezia non è di natura dionisiaca. Al più, si potrebbe concedere che si trattasse di uno stato di estasi simile a un dolce assopimento, a un sogno, a un vaneggiamento.

 

Poi la voce oracolare tacque.




 

Non solo la Beozia, ma tutta la Grecia - risonante per secoli di molteplici voci divine: arte, poesia, pensiero, responsi di numi – ammutoliti per sempre. È un’epoca stanca. I Flavi stessi, dopo l’impresa di Gerusalemme, sono come presi da quel senso extra-temporale che ispira l’Oriente. Giuseppe Flavio e Filone versano, nella storiografia e nel platonismo, la nostalgia biblica e l’elegia lamentosa di Sion…

 

Plutarco, sacerdote delfico e console romano, tenta invano di nascondere sotto l’epopea delle Vite il presagio di morte che si stende su tutte le forme del mondo antico, ed attestando quella pace delfica e romana, cosi profonda da rassomigliare a una vigilia di morte, sembra rimpiangere i tempi di Maratona.

 

L’oracolo, che ai suoi grandi giorni era stato politico e morale, ora è poetico e decadente sino a farsi patetico. Ingrossa invece il flutto della malinconia a sommergere la voce oracolare delfica, fioca ai tempi di Plutarco e spenta sotto Giuliano.




 

Dal primo secolo dell’era, mentre il carisma pentecostale avanza, l’oracolo delfico sente il disgusto delle domande volgari che salgono al tripode e avviliscono: sposarsi, navigare, mercanteggiare!

 

Plutarco è un fedele della religione platonica e il suo delfismo è, anzitutto, platonismo. I personaggi che salgono come un corteo sacerdotale, tra le immagini del Museo pitico, sino alla Lesche dei Cnidi, sono fratelli ideali di Fedone ed Eutifrone; tra loro non c’è posto per il cinico Planetiade. Non  freme, però, nel dialogo plutarcheo l’Eros del Simposio, sì bene un genio presso a morire; di tutta l’opera religiosa plutarchea, la morte di Pan batte la nota fondamentale, cupa come una marcia funebre.

 

Nella Descrittione di tutta l’Italia di Leandro Alberti, invece molti secoli dopo, pubblicata nel 1550, troviamo i seguenti passaggi:

 

Vedesi alla parte de quest’altissimo monte [Monte Vettore], che riguarda all’oriente, quel tanto famoso Lago del quale se dice che vi apparevano i demoni costretti dagli incantatori, et che qui vi parlano con essi. [...] Poscia alquanto più in su nell’Apennino nel territorio Nursino, evi il Lago [...]

 

Secondo Petrus Berchorius e il suo trecentesco Reductorium Morale, dal quale abbiamo già avuto modo di trarre citazioni, esseri demoniaci dimoravano già, in modo palese, le gelide acque del Lago:

 

Tra le montagne che si innalzano in prossimità di questa città [Norcia] si trova un lago, dagli antichi consacrato ai dèmoni, e da questi visibilmente abitato.

 

Il signore il cui oracolo si trova a Delfi non dichiara e non nasconde, ma accenna.

 

La natura tende a nascondersi.

 

(Eraclito)





I SIBILLINI ovvero IL PARCO
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