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ORIGINE e EVOLUZIONE DEL TOTALITARISMO

















Nulla è caratteristico dei movimenti totalitari in genere, e della qualità della fama dei loro capi in specie, come la sorprendente rapidità con cui questi sono dimenticati e la sorprendente disinvoltura con cui sono sostituiti. Quel che Stalin riuscì a compiere faticosamente in molti anni di aspre lotte intestine e con ampie concessioni, se non altro, al nome del suo predecessore – cioè farsi accettare come erede legittimo di Lenin – i successori di Stalin hanno cercato di fare senza concessioni al nome del predecessore, benché questi avesse potuto in trent’anni manipolare un apparato propagandistico sconosciuto ai tempi di Lenin per immortalarsi.

 

Lo stesso vale per Hitler, che durante la sua vita esercitò un fascino a cui nessuno, dicono, sarebbe stato immune, e che oggi, dopo la disfatta e la morte, è così completamente dimenticato da non svolgere quasi più alcun ruolo neppure fra i gruppi neofascisti e neonazisti della Germania postbellica. Questa caducità ha senza dubbio un po’ a che fare con la proverbiale incostanza delle masse e della fama ad esse affidata, ma più ancora con la smania di moto perpetuo dei movimenti totalitari, che rimangono al potere solo finché continuano a muoversi e a far muovere ogni cosa intorno a loro.





 

Quindi, in un certo senso, essa è un lusinghiero omaggio ai capi defunti in quanto testimonia il loro successo nel contaminare i sudditi col virus specificamente totalitario; perché, se c’è veramente un carattere o una mentalità totalitaria, la straordinaria adattabilità e l’assenza di continuità ne sono indubbiamente l’aspetto più vistoso. Sarebbe perciò un errore supporre che l’incostanza delle masse e la loro facilità a dimenticare ne denotino la guarigione dall’infatuazione totalitaria, talvolta identificata col culto di Hitler o di Stalin; potrebbe esser vero il contrario.

 

Sarebbe un errore ancor più grave dimenticare a causa di questa volubilità che i regimi totalitari, finché detengono il potere, e i loro capi, finché sono in vita, dispongono e si giovano dell’appoggio popolare sino alla fine. L’avvento di Hitler al potere fu legale secondo le regole della costituzione democratica; e né lui né Stalin avrebbero potuto mantenere il dominio su vaste popolazioni, superare molte crisi interne ed esterne, affrontare gli innumerevoli pericoli delle implacabili lotte intestine se non avessero goduto la fiducia delle masse.






Né i processi di Mosca né la liquidazione della frazione di Röhm sarebbero stati possibili se le masse non li avessero appoggiati. La diffusa convinzione che Hitler fosse semplicemente un agente degli industriali tedeschi e quella che Stalin dovesse la vittoria nella contesa per la successione di Lenin soltanto a una sinistra congiura sono entrambe leggende, confutate da molti fatti, ma soprattutto dall’indiscussa popolarità dei due capi. D’altronde, tale popolarità non può essere attribuita a una propaganda abile e menzognera, capace di sfruttare la stupidità e l’ignoranza. Perché la propaganda dei movimenti che precedono e accompagnano i regimi totalitari è falsa, ma non reticente; e i capi cominciano la loro carriera vantandosi dei crimini passati e annunciando con impareggiabile precisione quelli futuri.

 

I nazisti erano ‘convinti che la malvagità ha nella nostra epoca una morbosa forza d’attrazione’, e le affermazioni bolsceviche, in Russia e fuori, sul disconoscimento degli ordinari principî morali sono diventate un pilastro della propaganda comunista. L’esperienza ha dimostrato abbastanza spesso che il valore propagandistico dei misfatti e del generale disprezzo dei principî morali prescinde dal mero interesse egoistico, ritenuto il più potente fattore psicologico in politica.





 

L’attrazione del male e del delitto sulla mentalità della plebe non è davvero nuova, perché essa è sempre stata incline ad accogliere ‘gli atti di violenza con l’espressione ammirata: volgare, ma molto in gamba’. L’elemento sconcertante nel successo del totalitarismo è piuttosto la genuina abnegazione dei suoi seguaci: può essere comprensibile che un nazista o un bolscevico non si senta scosso nella sua convinzione da crimini contro persone che non appartengono al movimento o addirittura gli sono ostili; ma lo stupefacente è che non tentenni quando cominciano a esser colpiti i suoi compagni di fede, e neppure quando è lui stesso a cader vittima della persecuzione, a esser condannato sulla base di accuse inventate, espulso dal partito e deportato in un campo di concentramento o di lavoro forzato.

 

Anzi, con grande meraviglia dell’intero mondo civile, egli può essere persino disposto ad accusarsi e a collaborare alla sua condanna a morte, purché non sia toccata la sua posizione di militante. Sarebbe ingenuo considerare una semplice espressione di fervente idealismo questa tenacia di convinzioni che resiste ad ogni esperienza e soffoca gli istinti di conservazione. L’idealismo, folle od eroico che sia, scaturisce sempre da una decisione individuale e conduce a una convinzione che rimane soggetta all’esperienza e al ragionamento.




 

Il fanatismo totalitario, a differenza di ogni forma di idealismo, si sgretola nel momento in cui il movimento lascia i suoi seguaci negli impicci, cancellando in essi qualsiasi convinzione capace di sopravvivere alla rovina del movimento stesso. Ma all’interno della struttura organizzativa, finché resta compatta, i membri fanatizzati non possono esser raggiunti né dall’esperienza né dal ragionamento; l’identificazione col movimento e il conformismo assoluto sembrano aver distrutto la stessa capacità di esperienza, anche se estrema come la tortura o la paura della morte.

 

I movimenti totalitari mirano a organizzare le masse, non le classi, come i vecchi partiti d’interessi degli stati nazionali del continente, e neppure i cittadini con opinioni e interessi nei riguardi del disbrigo degli affari pubblici, come i partiti dei paesi anglosassoni. Mentre tutti i gruppi politici si basano sul loro seguito proporzionale, essi fanno leva sulla nuda forza numerica, dell’ordine di milioni, al punto da rendere impossibile un loro regime, anche nelle circostanze più favorevoli, in paesi con una popolazione relativamente poco numerosa. Dopo la prima guerra mondiale un’ondata totalitaria e semi-totalitaria travolse il continente; movimenti fascisti si diffusero dall’Italia a quasi tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale (la parte ceca della Cecoslovacchia fu una delle eccezioni); eppure Mussolini, che tanto amava il termine stato totalitario, non tentò di instaurare un regime totalitario in piena regola, accontentandosi della dittatura del partito unico.





Dittature sostanzialmente non diverse sorsero in Romania, in Polonia, negli stati baltici, in Ungheria, in Portogallo e infine in Spagna. I nazisti, che avevano un istinto infallibile per tali differenze, usavano criticare sdegnosamente i difetti degli alleati fascisti, mentre la loro genuina ammirazione per il regime bolscevico era frenata soltanto dal disprezzo per le razze dell’Europa orientale. L’unico uomo per cui Hitler avesse un rispetto incondizionato era il geniale Stalin; e anche se sulla Russia non possediamo (e presumibilmente non possederemo mai) il ricco materiale documentario di cui disponiamo per la Germania, sappiamo dal discorso di Chruščëv al XX congresso del partito che Stalin si fidava soltanto di un uomo, e quello era Hitler.

 

Nei piccoli paesi europei i regimi non totalitari erano stati preceduti da movimenti totalitari che, organizzate le masse e conquistato il potere, sembravano essersi arrestati di fronte al totalitarismo come di fronte a un obiettivo troppo ambizioso ripiegando sugli schemi più familiari della dittatura di classe o di partito. La verità è che questi paesi non disponevano di un sufficiente materiale umano per sopportare le enormi perdite di vite richieste continuamente da un apparato di potere totale. Mussolini tentò di porvi rimedio lanciandosi in avventure coloniali, che dopotutto non gli fruttarono molto più dell’ostilità delle vecchie potenze imperialistiche, specialmente dell’Inghilterra; ma, anche in caso di successo, avrebbe ottenuto al massimo un territorio da colonizzare per le eccedenze demografiche dell’Italia, e non delle masse umane da impiegare in esperimenti totalitari.




 

Non avendo alcuna speranza di conquistare territori più popolati, i tiranni dei piccoli paesi erano costretti a una certa moderazione di vecchio stampo se non volevano perdere anche la popolazione su cui governavano. Ecco, fra l’altro, perché il nazismo, fino allo scoppio della guerra e all’espansione in tutta l’Europa, rimase così indietro rispetto alla controparte russa in fatto di coerenza e spietatezza; neppure il popolo tedesco era abbastanza numeroso da consentire il pieno sviluppo di questa nuovissima forma di governo.

 

Solo se la Germania avesse vinto la guerra, avrebbe conosciuto un dominio totalitario completo; e i sacrifici che ciò avrebbe comportato non solo per le razze inferiori, ma per gli stessi tedeschi possono essere valutati dai piani di Hitler che ci sono giunti. In ogni caso fu soltanto durante la guerra, dopo che le conquiste nell’est europeo avevano reso possibili i campi di sterminio e messo a disposizione enormi masse umane, che la Germania fu in grado di instaurare un regime veramente totalitario.




 

Per contro, una simile forma di governo sembra trovare condizioni favorevoli nei paesi del tradizionale dispotismo orientale, in India e in Cina, dove c’è una riserva umana pressoché inesauribile, capace di alimentare la macchina totalitaria accumulatrice di potere e divoratrice di individui, e dove inoltre il senso della superfluità degli uomini, tipico delle masse (e assolutamente nuovo in Europa, un fenomeno associato alla disoccupazione generale e all’incremento demografico degli ultimi 150 anni), ha dominato per secoli incontrastato nel disprezzo della vita umana. La moderazione dei regimi semi-totalitari, il loro impiego di metodi meno sanguinari di governo non era comunque attribuibile al timore di una rivolta popolare; lo spopolamento del proprio paese era una minaccia molto più seria.

 

Il regime totalitario è infatti possibile soltanto dove c’è sovrabbondanza di masse umane sacrificabili senza disastrosi effetti demografici.

 

Invece i movimenti totalitari trovano un terreno fertile per il loro sviluppo dovunque ci sono delle masse che per una ragione o per l’altra si sentono spinte all’organizzazione politica, pur non essendo tenute unite da un interesse comune e mancando di una specifica coscienza classista, incline a proporsi obiettivi ben definiti, limitati e conseguibili. Il termine ‘massa’ si riferisce soltanto a gruppi che, per l’entità numerica o per indifferenza verso gli affari pubblici o per entrambe le ragioni, non possono inserirsi in un’organizzazione basata sulla comunanza di interessi, in un partito politico, in un’amministrazione locale, in un’associazione professionale o in un sindacato.




 

Potenzialmente, essa esiste in ogni paese e forma la maggioranza della folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne.

 

Fatto caratteristico, i movimenti totalitari europei, quelli fascisti come quelli comunisti dopo il 1930, reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza essi furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o guastati, da quel sistema.

 

Quindi non ebbero bisogno di confutare le opinioni contrarie preferendo metodi di terrore e guerra civile alla persuasione. Facevano risalire il dissenso a profonde origini naturali, sociali o psicologiche, sottratte al controllo dell’individuo e al potere della ragione. Ciò sarebbe stato uno svantaggio se fossero seriamente entrati in concorrenza coi partiti esistenti; non lo fu quando si rivolsero a persone che avevano motivo di essere altrettanto ostili a questi ultimi.




 

Il successo dei movimenti totalitari fra le masse segnò la fine di due illusioni care ai democratici in genere, e al sistema di partiti degli stati nazionali europei in particolare. La prima era che il popolo nella sua maggioranza prendesse parte attiva agli affari di governo e che ogni individuo simpatizzasse per l’uno o l’altro partito; i movimenti mostrarono invece che le masse politicamente neutrali e indifferenti potevano costituire la maggioranza anche in una democrazia, e che c’erano quindi degli stati retti democraticamente in cui solo una minoranza dominava ed era rappresentata in parlamento. La seconda illusione era che queste masse apatiche non contassero nulla, che fossero veramente neutrali e formassero lo sfondo inarticolato della vita politica nazionale; ora i movimenti totalitari misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rivelare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate.

 

Così, quando questi movimenti entrarono in parlamento malgrado il loro disprezzo per il parlamentarismo, mostrarono una certa incoerenza, ma in effetti riuscirono a convincere la gente qualunque che le maggioranze parlamentari erano fittizie e non corrispondevano necessariamente alla realtà del paese, minando per giunta la fiducia dei governi, che dal canto loro credevano più nel dominio della maggioranza che nella costituzione.




 

Si è spesso fatto rilevare che i movimenti totalitari usano e abusano delle libertà democratiche per distruggerle. Non si tratta in tal caso di abilità diabolica da parte dei capi o di stupidità puerile da parte delle masse. Le libertà democratiche si basano certamente sull’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; ma acquistano un senso e funzionano organicamente solo dove i cittadini appartengono a determinati gruppi, da cui sono rappresentati, o formano una gerarchia sociale e politica.

 

Il crollo del sistema classista, l’unica stratificazione sociale e politica degli stati nazionali europei, fu senza dubbio uno dei più drammatici eventi della recente storia tedesca, e creò per l’ascesa del nazismo condizioni non meno favorevoli di quelle offerte ai bolscevichi per il rovesciamento del governo Kerenskij dall’assenza di stratificazione sociale nell’immensa popolazione rurale russa (questo grosso flaccido corpo privo di educazione politica, pressoché inaccessibile a idee capaci di nobilitare l’azione).




 

La situazione nella Germania prehitleriana dà un esempio dei pericoli impliciti nell’evoluzione dell’occidente, poiché, con la fine della seconda guerra mondiale, lo stesso drammatico evento dello sfacelo del sistema classista si è ripetuto in quasi tutti i paesi europei, mentre gli avvenimenti russi indicano chiaramente la direzione che gli inevitabili mutamenti rivoluzionari dell’Asia possono prendere. Da un punto di vista pratico, non c’è molta differenza se i movimenti totalitari adottano l’orientamento del nazismo o quello del bolscevismo, se organizzano le masse in nome della razza o della classe, se pretendono di seguire le leggi della vita e della natura o quelle della dialettica e dell’economia.

 

L’indifferenza per gli affari pubblici e la neutralità nei problemi politici non sono di per sé una causa sufficiente per l’ascesa dei movimenti totalitari. La società borghese, concorrenziale e acquisitiva, aveva prodotto apatia e persino ostilità nei confronti della vita pubblica, non solo negli strati sociali sfruttati ed esclusi dall’attiva partecipazione al governo del paese, ma soprattutto nelle file della borghesia. Il lungo periodo di falsa modestia, in cui la borghesia si era accontentata del ruolo di classe dominante nella società senza aspirare alla direzione politica, volentieri lasciata all’aristocrazia, era stato seguito dall’epoca imperialista, durante la quale, presa da crescente ostilità contro le istituzioni nazionali esistenti, essa aveva cominciato a rivendicare il potere politico organizzandosi per il suo esercizio.




 

Sia l’apatia precedente sia la successiva pretesa di dirigere in modo monopolistico gli affari internazionali del proprio paese avevano le loro radici in una concezione della vita così imperniata sul successo o insuccesso individuale nella spietata concorrenza da considerare i doveri del cittadino un inutile spreco di tempo e di energia. Questo atteggiamento si presta ottimamente per quelle forme di dittatura in cui un uomo forte si assume la pesante responsabilità della condotta degli affari pubblici; ma è un ostacolo per i movimenti totalitari che non tollerano l’individualismo borghese più delle altre specie di individualismo. I settori politicamente apatici di una società dominata dalla borghesia, benché riluttanti ad addossarsi le funzioni proprie dei cittadini, mantengono intatte le loro personalità, le loro qualità individuali, se non altro perché senza di esse non possono sperar di sopravvivere nella lotta per l’esistenza.

 

È difficile rilevare la differenza fra le organizzazioni della plebe del XIX secolo e i movimenti di massa del XX perché i moderni capi totalitari non si distinguono molto psicologicamente dai vecchi demagoghi, i cui principî morali e metodi politici somigliavano così da vicino a quelli della borghesia. Comunque, nella misura in cui l’individualismo caratterizzava l’atteggiamento della borghesia e della plebe verso la vita, i movimenti totalitari possono giustamente vantarsi di essere stati i primi partiti veramente antiborghesi.





Nessuno dei loro predecessori del XIX secolo, la Società del 10 dicembre che aiutò Luigi Bonaparte nella scalata all’impero, le brigate di macellai dell’affare Dreyfus, i Cento neri dei pogrom russi o i pan-movimenti, assorbiva i suoi membri fino alla completa scomparsa delle pretese e ambizioni individuali, o intuiva che un’organizzazione poteva riuscire a estinguere l’identità individuale in modo permanente, e non soltanto per la breve durata di un’azione eroica collettiva.

 

La relazione fra la società classista a predominio borghese e le masse emerse dal suo sgretolamento non è la stessa che fra la borghesia e la plebe, che era un sottoprodotto della produzione capitalistica. Le masse condividono con la plebe un’unica caratteristica, l’estraniamento da ogni struttura sociale e dalla normale rappresentanza politica. Esse non ereditano, come quella (sia pure in forma pervertita), i principî e gli atteggiamenti della classe dominante, ma riflettono e pervertono i principî e gli atteggiamenti di tutte le classi. L’orientamento dell’uomo di massa non è determinato soltanto, o principalmente, dalla specifica classe a cui un tempo egli apparteneva, ma piuttosto dalle diffuse influenze e convinzioni che formano il bagaglio inarticolato di tutte le classi della società.




 

Nell’ambito della società classista l’appartenenza a una determinata classe, benché non così rigida e inevitabilmente fissata fin dall’origine come negli ordini e ceti feudali, era generalmente decisa dalla nascita, e soltanto il possesso di doti straordinarie o la fortuna potevano cambiarla. Lo status sociale era determinante per la partecipazione dell’individuo alla politica, e tranne nei casi di emergenza nazionale, in cui si reputava che si comportasse da cittadino, prescindendo da vincoli di classe o di fazione, egli non si trovava mai in contatto diretto con gli affari pubblici, né aveva la responsabilità della loro condotta.

 

L’ascesa di una classe in seno alla collettività era sempre accompagnata dall’addestramento di un certo numero di suoi membri nell’arte della politica come professione, pagata o no, da esercitare in sua rappresentanza nel governo o nel parlamento. Che la maggioranza del popolo rimanesse esclusa da questa politica come da qualsiasi organizzazione e partito, non interessava a nessuno, e ciò valeva per tutte le classi indistintamente. In altre parole, l’appartenenza a una classe, i limitati doveri di gruppo che ne derivavano e i tradizionali atteggiamenti verso la cosa pubblica impedivano il sorgere di una coscienza politica che desse modo a ogni cittadino di sentirsi personalmente responsabile per il governo del paese.




 

Questo carattere apolitico della base dello stato nazionale venne in luce soltanto quando il sistema classista cadde in rovina provocando la recisione degli innumerevoli fili, visibili e invisibili, che avevano legato il popolo al corpo politico.

 

Il crollo del sistema classista implicò automaticamente il crollo del sistema dei partiti, soprattutto perché questi, essendo organizzazioni d’interessi, non ne avevano più da rappresentare. La loro sopravvivenza stava a cuore agli esponenti delle vecchie classi, che sognavano il ritorno di ogni cosa al suo posto ed erano tenuti uniti non da interessi comuni, bensì dalla speranza di riportarli in vita mercé i partiti.

 

Questi diedero quindi un tono sempre più ideologico alla loro propaganda assumendo posizioni apologetiche e nostalgiche. Avevano inoltre perso, senza accorgersene, quei simpatizzanti passivi che non si erano mai curati di politica perché ritenevano che ci fossero i partiti per difendere i loro interessi. Di modo che il primo segno del tramonto non fu la diserzione dei vecchi militanti, bensì l’incapacità di reclutarne di nuovi fra le giovani generazioni, oltre che la perdita del tacito consenso e appoggio delle masse disorganizzate che, uscite d’improvviso dall’apatia, si buttarono dovunque avvertissero l’occasione di manifestare la loro ostilità verso l’intero sistema.





Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che le speranze degli esponenti politici in un ritorno dei bei tempi andati fossero campate in aria e che quindi i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in verità dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina.

 

Non contava molto che tale temibile solidarietà negativa derivasse dai più diversi motivi, che il disoccupato odiasse lo status quo e le potenze dominanti sotto la forma della socialdemocrazia, il piccolo proprietario espropriato sotto quella dei partiti di centro, e gli ex appartenenti alla media e alta borghesia sotto quella della destra tradizionale. Questa massa di uomini disperati e pieni di risentimento crebbe rapidamente in Germania e in Austria dopo la prima guerra mondiale, quando l’inflazione e la disoccupazione si aggiunsero alle conseguenze disgregatrici della disfatta militare; ma essa assunse notevoli dimensioni in tutti gli stati successori dell’est europeo, e dopo la seconda guerra mondiale si sviluppò in misura preoccupante anche in Francia e in Italia.

 

In questa atmosfera di sfacelo generale si formò la mentalità dell’uomo di massa europeo. 




 

Il fatto che la stessa sorte avesse colpito con monotona ma astratta uniformità intere masse di persone non impedì a queste di giudicare il proprio caso individuale come un fallimento e il mondo come il regno dell’ingiustizia. Ma, pur tendendo a cancellare le differenze individuali in un generale risentimento, questa amarezza egocentrica non creava un vincolo comune, perché non era basata su una comunanza d’interessi, economici, sociali o politici.

 

All’egocentrismo si accompagnò quindi molto spesso un indebolimento dell’istinto di autoconservazione. L’abnegazione, non come virtù, ma come senso della nessuna importanza del proprio io, della sua sacrificabilità, divenne un fenomeno di massa che non aveva più a che vedere con l’idealismo individuale. La vecchia massima secondo cui i poveri e gli oppressi non avevano nulla da perdere all’infuori delle loro catene non si applicava più a questi uomini, che avevano perso ben più delle catene della miseria quando avevano smarrito l’interesse per se stessi: era venuta meno la fonte delle ansie e delle preoccupazioni che rendono la vita umana penosa e tormentata.




 

In confronto del loro non materialistico distacco dal mondo, un monaco cristiano faceva la figura dell’uomo assorbito dagli affari terreni. Himmler, che conosceva bene la mentalità della gente da lui organizzata, non descrisse soltanto le sue SS, ma i larghi strati da cui le reclutava, quando affermò che esse non si interessavano dei problemi quotidiani, ma esclusivamente di questioni ideologiche e della grande fortuna di essere prescelte a collaborare a un compito che prende come base di calcolo le epoche storiche e la cui traccia non potrà svanire neppure fra millenni. La massificazione degli individui produsse una mentalità che, al pari di Cecil Rhodes quarant’anni prima, pensava in termini di continenti e di secoli.

 

Dall’inizio del XIX secolo in poi, eminenti studiosi e statisti europei avevano profetizzato l’avvento dell’era della massa. Tutta una letteratura sul comportamento e sulla psicologia di questa aveva divulgato la conoscenza dell’affinità, ben nota agli antichi, fra democrazia e dittatura, fra oclocrazia e tirannide. Senza dubbio, alcuni settori politicamente sensibili della cultura occidentale erano preparati all’apparizione di demagoghi, al diffondersi dei pregiudizi, della credulità, della brutalità. Pur avverandosi in una certa misura, tali predizioni persero molto del loro significato data la comparsa di fenomeni imprevisti e inattesi come il radicale disinteresse per la propria persona, la cinica o annoiata indifferenza di fronte alla morte e ad altre catastrofi naturali, l’appassionata tendenza per le idee più astratte come norme di vita, il generale disprezzo per il più comune buon senso.




 

Contrariamente alle profezie, le masse non furono il prodotto della crescente eguaglianza di condizioni, della diffusione dell’istruzione, del conseguente abbassamento del livello della cultura, della popolarizzazione dei suoi contenuti. (Malgrado tutti i suoi difetti, l’America, il classico paese dell’eguaglianza di condizioni e della istruzione generale, ha conosciuto forse meno di qualsiasi altro paese del mondo la moderna psicologia di massa). Divenne ben presto evidente che la gente colta era particolarmente attratta dai movimenti delle masse e che, in genere, la sofisticazione e lo spiccato individualismo, lungi dall’impedire l’abbandono di se stessi e della propria peculiarità nell’abbraccio di quei movimenti, talvolta addirittura lo favorivano.

 

Poiché non ci si era aspettati che la raffinatezza e la spiritualità si conciliassero con l’assunzione di atteggiamenti di massa, se ne diede spesso la colpa allo stato patologico o al nichilismo dell’intelligencija moderna, a un presunto tipico odio intellettuale contro se stessi, all’ostilità dello spirito verso la vita. Ma in realtà gli intellettuali non erano che gli esempi più vistosi, i portavoce più abili di un fenomeno generale. Essendo stati preceduti dall’atomizzazione sociale e da un’estrema individualizzazione, i movimenti di massa attrassero, prima e molto più facilmente dei membri dei partiti tradizionali che erano inclini all’associazione, gli elementi completamente disorganizzati, i tipici astensionisti che per il loro individualismo avevano sempre rifiutato di riconoscere vincoli e doveri sociali.




 

La verità è che le masse si formarono dai frammenti di una società atomizzata, in cui la struttura competitiva e la concomitante solitudine dell’individuo erano state tenute a freno soltanto dall’appartenenza a una classe. La principale caratteristica dell’uomo di massa non era la brutalità e la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali. Provenendo dalla società classista dello stato nazionale, le cui crepe erano state saldate col sentimento nazionalistico, era naturale che queste masse, nell’imbarazzo della nuova esperienza, tendessero a un nazionalismo estremamente violento, a cui i loro capi cedettero contro i propri istinti e propositi per ragioni puramente demagogiche.

 

Né il nazionalismo tribale né il nichilismo sedizioso erano ideologicamente appropriati alle masse come erano stati alla plebe. Ma i capi più dotati dei movimenti totalitari del nostro tempo furono creature della plebe più che delle masse. La biografia di Hitler è un esempio classico a tale riguardo, e lo stesso Stalin veniva non dal partito vero e proprio, ma dall’apparato cospirativo col suo tipico miscuglio di spostati e di rivoluzionari. Il partito nazista dei primi tempi, quasi esclusivamente composto da falliti e avventurieri, rappresentava in effetti la società di bohémiens armati, che era il rovescio della buona società borghese e che quindi la borghesia tedesca avrebbe dovuto saper usare per i propri scopi.




 

In realtà, gli industriali che avevano finanziato Hitler si videro ingannati, non diversamente dalla frazione Röhm-Schleicher nella Reichswehr, convinta a sua volta che Hitler, già usato come paravento, e le SA, usate come formazioni paramilitari, avrebbero fatto da suoi agenti nell’instaurazione di una dittatura militare. Gli uni e gli altri giudicavano il movimento nazista dai suoi inizi, in base alla concezione politica della plebe, e trascuravano l’appoggio spontaneo dato dalle masse ai demagoghi, oltre che il genuino talento di questi per la creazione di nuove forme organizzative. La plebe come guida delle masse non era più l’agente della borghesia o di altri.

 

Come per i movimenti totalitari siano necessarie, più che l’assenza di strutture, l’atomizzazione e l’individualizzazione della moderna società di massa, si può vedere dal confronto fra il nazismo e il bolscevismo, che cominciarono la loro azione in circostanze estremamente diverse. Per trasformare la dittatura rivoluzionaria di Lenin in un regime totalitario, Stalin dovette prima creare artificialmente quella società atomizzata che in Germania per i nazisti era stata preparata dagli avvenimenti storici.




 

La rivoluzione d’ottobre ottenne la vittoria con stupefacente facilità in un paese dove una burocrazia dispotica e accentrata governava una massa amorfa, che né i residui del feudalesimo rurale né il debole, nascente capitalismo urbano avevano saputo organizzare. Quando Lenin affermava che in nessun altro paese del mondo sarebbe stato così facile conquistare il potere e così difficile conservarlo, si rendeva conto non solo della debolezza della classe operaia russa, ma altresì delle anarchiche condizioni sociali che favorivano i cambiamenti improvvisi.

 

Privo com’era degli istinti del capo della massa (non era un oratore e aveva una spiccata tendenza ad ammettere pubblicamente i propri errori e ad analizzarli, cosa che urtava contro l’infallibilità dei capi totalitari, oltre che contro le regole di ogni demagogia), Lenin puntò subito su tutte le possibili differenziazioni, sociali, nazionali, professionali, capaci di introdurre delle strutture nella popolazione, nella palese convinzione che tale processo stratificatore avrebbe costituito la salvezza del potere rivoluzionario. Egli legalizzò l’espropriazione anarchica dei latifondisti da parte delle masse rurali creando così per la prima, e probabilmente per l’ultima, volta in Russia quella classe contadina emancipata che, dalla rivoluzione francese in poi, era stata il più valido sostegno degli stati nazionali occidentali.




 

Cercò di rafforzare la classe operaia incoraggiando l’indipendenza dei sindacati. Tollerò la timida apparizione di una nuova classe media, nata sotto gli auspici della NEP dopo la fine della guerra civile. Introdusse ulteriori differenziazioni organizzando, talvolta dal nulla, il maggior numero possibile di nazionalità, favorendo il sorgere di una coscienza nazionale, storica e culturale persino fra i gruppi etnici più primitivi. Sembra evidente che in questi problemi puramente pratici Lenin seguisse il suo istinto di grande uomo di stato più che le sue convinzioni marxiste; la sua politica rivelava comunque che egli era più preoccupato dall’assenza di ogni struttura che dal possibile sviluppo di tendenze centrifughe nelle nazionalità da poco emancipate, o dal sorgere di una nuova borghesia sulla base della combinazione della classe media urbana e di quella contadina.

 

Senza dubbio Lenin subì la sua maggiore sconfitta quando, con lo scoppio della guerra civile, il potere supremo, che egli aveva originariamente progettato di concentrare nei soviet, passò definitivamente nelle mani della burocrazia di partito; ma neppure questa svolta, per quanto tragica per il successivo corso della rivoluzione, avrebbe necessariamente condotto al totalitarismo. La dittatura del partito unico aggiunse semplicemente un’altra classe alla già avviata stratificazione sociale del paese, cioè la burocrazia che, secondo la formulazione di Marx, possedeva lo stato come una sua proprietà privata.




 

Al momento della morte di Lenin erano ancora aperte molte strade. Non era detto che la formazione di classi (operaia, contadina e borghese) portasse inevitabilmente alla lotta di classe che aveva caratterizzato il capitalismo europeo. L’agricoltura poteva ancora svilupparsi su una base collettiva, cooperativa o privata, e l’economia nazionale restava libera di seguire i principî del socialismo, quelli del capitalismo di stato o quelli della libera iniziativa. Nessuna di queste alternative avrebbe automaticamente distrutto la nuova struttura del paese.

 

Le classi e le nazionalità sorte dopo la rivoluzione costituirono un ostacolo per Stalin, quando si accinse a preparare l’instaurazione di un regime totalitario. Per creare una massa atomizzata e amorfa, egli dovette per prima cosa liquidare le vestigia del potere dei soviet che, nella loro qualità di principale organo rappresentativo nazionale, continuavano a svolgere una certa funzione e impedivano il dominio assoluto della gerarchia del partito. A tal fine ne minò l’autonomia introducendo in essi delle cellule bolsceviche, investite del potere esclusivo di nominare i membri del comitato centrale.




 

Nel 1930 erano ormai scomparse le ultime tracce di autonoma amministrazione comunale e locale. Ne aveva preso il posto una burocrazia di partito rigidamente accentrata, che nella tendenza alla russificazione non si distingueva molto dal regime zarista; solo che essa, a differenza di questo, non aveva paura dell’istruzione.

 

Il governo procedette poi alla liquidazione delle classi e cominciò, per ragioni ideologiche e propagandistiche, dalle classi possidenti, la nuova borghesia nelle città e i contadini nelle campagne. Per la forza numerica e la ricchezza, questi ultimi erano stati fino allora la classe potenzialmente più potente dell’Unione; contro di loro si procedette quindi in maniera più radicale e crudele che contro altri gruppi, ricorrendo a una carestia artificialmente prodotta e alla deportazione col pretesto di espropriare i kulaki e collettivizzare le terre.

 

La liquidazione della classe media e dei contadini venne portata a compimento all’inizio degli anni trenta; quelli che non si trovavano fra i milioni di morti o i milioni di deportati avevano imparato che contro il potere statale non giovava la solidarietà di gruppo, che la sorte delle loro famiglie non era affatto legata a quella dei concittadini, che ognuno di essi era isolato e impotente, alla mercé dell’autorità.




 

Non si può stabilire con esattezza, sulla base di statistiche o documenti, il momento in cui la collettivizzazione giunse a produrre un nuovo strato contadino, legato da interessi comuni, che per la forza numerica e la posizione chiave nell’economia nazionale rappresentava un potenziale pericolo per il potere totalitario. Ma per chi sa leggere le ‘fonti’, questo momento era venuto quando Stalin, due anni prima della morte, propose di sciogliere le fattorie collettive trasformandole in unità più grandi. Egli non visse tanto da attuare il suo piano; questa volta i sacrifici sarebbero stati forse ancora maggiori e le caotiche conseguenze per l’economia generale piú catastrofiche che al tempo della liquidazione della prima classe contadina, ma non c’è motivo di dubitare del successo dell’operazione. Non c’è una classe che non si possa sbaragliare uccidendo un sufficiente numero dei suoi membri.

 

Poi fu il turno degli operai. Come classe essi erano molto piú deboli dei contadini e opposero meno resistenza. A differenza di quanto era avvenuto per l’espropriazione nelle campagne, le fabbriche, di cui si erano impadroniti durante la rivoluzione espropriando i proprietari, erano state subito confiscate dal governo e dichiarate di proprietà statale, col pretesto che tutto il potere dello stato apparteneva al proletariato.




 

Il sistema di Stachanov, adottato all’inizio degli anni trenta, annientò la solidarietà e la coscienza di classe fra gli operai, prima con una concorrenza feroce e poi con la formazione di un’aristocrazia stachanovista, la cui distanza sociale dall’operaio comune provocava naturalmente un’irritazione più profonda del distacco fra le maestranze e la direzione aziendale. Il processo giunse a compimento nel 1938 con l’introduzione del libretto di lavoro, che trasformò ufficialmente l’intera classe operaia russa in una gigantesca massa di condannati al lavoro forzato.

 

Tali misure culminarono nell’eliminazione di quella burocrazia che aveva collaborato nella loro attuazione. Occorsero a Stalin circa due anni, dal 1936 al 1938, per sbarazzarsi dell’aristocrazia amministrativa e militare della società sovietica; quasi tutte le cariche, nelle fabbriche, negli organismi economici e culturali, nel governo, nel partito e nelle forze armate, passarono in nuove mani, dato che quasi metà del personale amministrativo, di partito e non di partito, venne epurato, e oltre il 50 per cento dei membri del partito e almeno altri otto milioni di persone liquidati.




 

Anche qui il processo si concluse con l’introduzione di un passaporto interno, su cui ogni trasferimento da una città all’altra doveva essere registrato e autorizzato. Quanto allo status giuridico, la burocrazia, ivi inclusi i funzionari di partito, si trovò ora posta sullo stesso piano degli operai; anch’essa era entrata a far parte della vasta moltitudine dei lavoratori forzati, e la sua posizione di classe privilegiata della società sovietica era ormai una cosa del passato. E poiché questa epurazione generale finì con la liquidazione dei più alti funzionari di polizia, gli stessi che l’avevano organizzata, neppure i quadri della GPU, gli esecutori del terrore, poterono illudersi di rappresentare come gruppo qualcosa, men che meno il potere.

 

Nessuno di questi immensi sacrifici di vite umane fu motivato da una ragion di stato nel vecchio senso del termine. Nessuno degli strati sociali liquidati era ostile al regime, né c’era probabilità che lo diventasse nel prossimo futuro. L’opposizione attiva organizzata aveva cessato di esistere già nel 1930, quando Stalin, nel suo discorso al XVI congresso del partito, aveva posto al bando i deviazionisti di destra e di sinistra, ma neppure queste deboli opposizioni erano state in grado di appoggiarsi a qualcuna delle classi esistenti. Il terrore dittatoriale, che si distingue da quello totalitario in quanto minaccia soltanto gli autentici oppositori, e non gli innocui cittadini senza opinioni, aveva soffocato ogni parvenza di vita politica, aperta o clandestina, già prima della morte di Lenin.




 

L’intervento dall’esterno, basato sull’alleanza con qualcuno dei settori malcontenti della popolazione, non era più un pericolo nel 1930, perché il regime era ormai stato riconosciuto dalla maggioranza dei governi e aveva concluso accordi commerciali e d’altro genere con molti paesi. D’altronde, il terrore staliniano non era il mezzo piú adatto per estinguere le tendenze separatiste: sappiamo bene che Hitler, se fosse stato un normale conquistatore, e non un capo totalitario, avrebbe forse avuto una buona probabilità di tirare dalla sua parte almeno il popolo ucraino.

 

La liquidazione delle classi non aveva alcun senso dal punto di vista della normale politica di potenza; ma per l’economia fu addirittura disastrosa. Le conseguenze della carestia artificiale del 1933 si fecero sentire per anni in tutto il paese; l’introduzione del sistema stachanovista nel 1935, con la sua arbitraria accelerazione del ritmo produttivo individuale e con la sua completa noncuranza delle necessità del lavoro di squadra nelle fabbriche, causò un caotico squilibrio nella giovane industria. La rimozione dei dirigenti aziendali e degli ingegneri, nell’ambito della liquidazione della burocrazia, privò le imprese di quell’esperienza e abilità che i tecnici postrivoluzionari erano riusciti in qualche misura ad acquistare.




 

Il livellamento delle condizioni dei sudditi è sempre stato una delle principali preoccupazioni dei despoti e dei tiranni fin dai tempi più antichi; ma un simile livellamento non è sufficiente per il regime totalitario, perché lascia più o meno intatti certi legami non politici, come i vincoli familiari e gli interessi culturali comuni. Se tale regime vuole sul serio raggiungere il suo scopo, deve far sì che finisca una volta per tutte la neutralità del gioco degli scacchi, vale a dire l’esistenza autonoma di qualsiasi attività. Gli appassionati degli scacchi per gli scacchi, dal loro liquidatore equiparati ai cultori dell’arte per l’arte, non sono ancora individui completamente isolati in una massa senza legami, la cui uniformità eterogenea è una delle condizioni essenziali del totalitarismo.

 

Dal punto di vista dei governanti, un’associazione assorbita dal gioco degli scacchi non è in linea di principio (ma solo per grado) meno pericolosa di una classe di contadini che si occupi con passione esclusiva della coltivazione. Non a torto Himmler definí le SS come il nuovo tipo umano che in nessuna circostanza avrebbe fatto una cosa per se stessa.




 

L’atomizzazione della società sovietica venne ottenuta con l’abile uso di ripetute epurazioni, che invariabilmente precedevano l’effettiva liquidazione di un gruppo. Per distruggere tutti i legami sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte l’accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti più stretti. La conseguenza dell’ingegnoso criterio della colpa per associazione era che, appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti; per salvare la propria pelle essi offrivano volontariamente delle informazioni e si affrettavano a presentare delle denunce per avvalorare le prove indiziarie contro di lui che erano inconsistenti; questo ovviamente era l’unico modo per dimostrare la propria fidatezza.

 

Retrospettivamente essi cercavano altresì di dimostrare che la loro relazione o amicizia con l’accusato era soltanto un pretesto per tenerlo d’occhio ed eventualmente smascherarlo come sabotatore, trockista, spia straniera o fascista. Poiché il merito veniva valutato dal numero delle denunce presentate contro i compagni più vicini, era ovvio che la più elementare prudenza imponesse a uno di evitare ogni intimità, se possibile; non per impedire la scoperta dei suoi pensieri segreti, ma unicamente per tenere alla larga, in caso di futuri guai, tutte le persone che avrebbero potuto trovarsi costrette dal pericolo a provocare la sua rovina.




 

In ultima analisi, fu con l’impiego radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare intorno a ciascun individuo un’impotente solitudine quale neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare.

 

I movimenti totalitari sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò già prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana. Dove, però, come in Russia, a differenza della Germania nazista, il regime totalitario non è stato preparato da un movimento totalitario, questo è stato organizzato dopo e le condizioni indispensabili al suo sviluppo sono state create artificialmente per rendere possibile quella fedeltà totale che ne è la base psicologica. Ci si può aspettare una simile fedeltà soltanto da un essere umano completamente isolato che, senza alcun vincolo sociale con i familiari, gli amici, i compagni e i conoscenti, senta di avere un posto nel mondo esclusivamente mercé l’appartenenza al movimento, al partito.




 

La fedeltà totale è possibile soltanto quando è svuotata di ogni contenuto concreto, da cui potrebbero naturalmente derivare mutamenti d’opinione. I movimenti totalitari, ciascuno a modo suo, hanno fatto del loro meglio per sbarazzarsi dei programmi che specificavano punti concreti e che essi avevano ereditato dalle fasi di sviluppo precedenti, non totalitarie. Per quanto radicale possa esserne la formulazione, ogni programma politico che non indichi come obiettivo semplicemente il dominio del mondo, o che si occupi di cose più specifiche delle questioni ideologiche dei prossimi millenni, è un ostacolo per il totalitarismo.

 

Il maggior contributo di Hitler all’organizzazione del movimento nazista, che egli ricavò gradualmente dall’oscura compagine di esaltati militanti di un piccolo partito tipicamente nazionalistico, consisté nel buttare a mare il precedente programma, non modificandolo o abolendolo ufficialmente, ma rifiutandosi di parlarne o di discuterne i punti, che con la loro relativa moderazione di contenuto e di fraseologia furono ben presto sorpassati. Anche a tale riguardo il compito di Stalin fu molto più difficile; il programma socialista del partito bolscevico era un fardello ben più fastidioso dei 25 punti stilati da un economista dilettante e ciarlatano. Ma, dopo aver eliminato le frazioni all’interno del partito, Stalin ottenne alla fine lo stesso risultato col continuo zigzag della linea politica seguita, con la continua reinterpretazione del marxismo, che svuotava la dottrina di ogni contenuto rendendo impossibile predire quale condotta o azione avrebbe ispirato.




 

L’educazione marxista-leninista non era più una guida per l’attività politica (perché si poteva seguire la linea del partito soltanto se si ripeteva al mattino quel che Stalin aveva annunciato la sera prima). Ciò naturalmente portò al diffondersi di un’obbedienza concentrata, immune dalla velleità di capire quanto si faceva. Himmler indicò un’analoga esigenza coniando un’ingegnosa parola d’ordine per le sue SS: ‘Il mio onore si chiama fedeltà’.

 

L’assenza di un programma non è di per sé necessariamente un segno di totalitarismo. Il primo a considerare i programmi politici come inutili pezzi di carta e imbarazzanti promesse, incompatibili con lo stile e l’impeto di un movimento, fu Mussolini con la sua filosofia dell’attivismo, che rimetteva tutto al momento storico, alla forza ispiratrice di questo. La sete di potere associata al disprezzo per la verbosa enunciazione di quanto si intende fare è caratteristica di tutti i demagoghi, ma non si pone sullo stesso piano del totalitarismo.

 

Il vero obiettivo del fascismo era solo quello di impadronirsi del potere e insediare la sua élite come incontrastata dominatrice del paese. Il totalitarismo non si accontenta mai di dominare con mezzi esterni, cioè tramite lo stato e un apparato di violenza; nell’ideologia che gli è peculiare e nel ruolo che gli è riservato nell’apparato coercitivo esso ha scoperto un mezzo per dominare e terrorizzare gli uomini dall’interno. In tal senso elimina la distanza fra governanti e governati e crea una condizione in cui potenza e volontà di potenza, come noi le intendiamo, non svolgono alcuna funzione o, tutt’al più, una funzione secondaria.




 

In sostanza, il capo totalitario non è altro che il funzionario delle masse da lui guidate; non è un individuo assetato di potere che impone una volontà tirannica e arbitraria ai suoi sudditi. Essendo un semplice funzionario, può esser sostituito in qualsiasi momento, e dipende dalla volontà delle masse che impersona quanto le masse dipendono da lui. Senza di lui esse sarebbero prive di una rappresentanza esterna e rimarrebbero un’orda amorfa; senza le masse il capo è nulla. Hitler, che si rendeva pienamente conto di tale interdipendenza, così ebbe a formularla una volta in un discorso alle SA:

 

‘Tutto quel che voi siete, lo dovete a me; tutto quel che io sono, lo devo a voi’.

 

Siamo troppo inclini a non prender sul serio simili affermazioni, o a fraintenderle nel senso che qui l’agire, come così spesso è avvenuto nella storia e nella tradizione politica dell’occidente, viene definito come l’impartire ed eseguire ordini. Ma tale idea ha sempre presupposto qualcuno in posizione di comando che pensi e voglia, e poi imponga il suo pensiero e la sua volontà a un gruppo privo di pensiero e volontà, con la persuasione o l’autorità o la violenza. Hitler era invece dell’opinione che anche ‘il pensiero… [esiste] soltanto nell’impartire o eseguire un ordine’, ed eliminava così persino teoricamente la distinzione fra pensare ed agire da un lato, e fra dominare ed esser dominati dall’altro.

 

Né il nazismo né il bolscevismo hanno mai proclamato una nuova forma di stato, o affermato che i loro obiettivi erano raggiunti con la conquista del potere e il controllo dell’apparato statale. La loro idea di dominio concerne qualcosa che né uno stato né un semplice apparato di violenza, ma soltanto un movimento costantemente in marcia può conseguire: cioè il dominio permanente di ogni singolo individuo in qualsiasi aspetto della vita. La conquista del potere mediante gli strumenti di violenza non è mai fine a se stessa, bensì soltanto il mezzo per il conseguimento di un fine; in qualsiasi paese essa è soltanto una gradita fase transitoria, mai il fine del movimento. L’obiettivo pratico di questo è organizzare il maggior numero possibile di persone nelle sue file e farle marciare; un obiettivo politico, che costituirebbe la fine del movimento, semplicemente non esiste.

 

(Hannah Arendt)




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